Immagini riflesse: Letteratura e antropologia culturale (Incontro interdisciplinare – Macerata, 18 settembre 2013)

Commento alla relazione del professor Alberto Sobrero

Nell’introduzione del suo intervento, il professor Sobrero enuclea due concetti di cui non mi sembra superfluo ripetere l’importanza. Innanzitutto, ‘raccontare storie è una cosa seria’. In apertura del suo Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, Roland Barthes teneva a dire che «Nelle sue forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società: il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità, non c’è mai stato da nessuna parte un popolo senza racconto»1. Inoltre, il professor Sobrero ci ha suggerito che raccontare storie è una cosa ‘che ci sfugge un po’ di mano’. Raccontiamo nostro malgrado, raccontiamo oltre il nostro pensiero e la nostra volontà. C’è un atteggiamento connotato di una qualche forma di passività in chi racconta storie e in chi quelle storie le ascolta – le storie ci attraversano.

Da questo potere del racconto non si è mancato, del resto, di metterci in guardia. Con la sua teoria dello storytelling, Christian Salmon2 ha denunciato la narrativizzazione dei contenuti che ci vengono proposti, la continua messa in racconto operata dal marketing, dalla comunicazione d’impresa, dalla politica, che utilizzano, in vista di una nostra manipolazione, la propensione tutta umana ad ascoltare o a leggere delle storie per interpretare il mondo. Sono le narrazioni, più che le immagini, a forgiare i nostri spiriti, con un grave danno, sostiene Salmon, per l’immaginario collettivo.

Ci è stato esposto il caso esemplare di un percorso sospeso tra letteratura e antropologia, ibrido in quel suo abbandono al fascino del racconto, un percorso del co-bisogno di due verità. Michel Leiris appartiene a quella fase della storia dell’etnografia e dell’antropologia che Vincent Debaene definisce come contraddistinta dallo ‘schema del doppio libro’3: quasi tutti gli antropologi, tra gli anni ’30 e ’50 del XX secolo, ritornavano dai loro viaggi di ricerca con un ‘secondo libro’, un’opera dal sapone più letterario che scientifico4. Cosa notevole, rileva Debaene, perché accadeva proprio nel momento in cui gli etnografi si premuravano di affermare, in un progetto di emancipazione della disciplina, che la loro non era letteratura (Pierre Bourdieu accusava Lévi-Strauss che la sua era la più letteraria delle scienze sociali). Lo stesso Marcel Mauss, nel suo Manuel d’ethnographie, benché sostenga che la preoccupazione dell’etnografo debba essere quella di registrare i fatti, aggiunge che bisogna anche essere romanzieri, «capaci di evocare un’intera società»5 – particolarmente rilevante mi pare il termine ‘evocare’.

Leiris era sensibile al gioco del linguaggio, allo slittamento, allo scivolamento del linguaggio (termini che amava particolarmente), il movimento della parola che ne richiama altre, che diventa idea solo per un attimo, per poi farsi suono o immagine, entità latrice di inediti collegamenti. Bella l’immagine del linguaggio che «si trasforma in oracolo e noi abbiamo così un filo per guidarci nella Babele del nostro spirito»6. Il linguaggio come strumento dalle connessioni inconsuete, che asseconda e spinge verso un’estrema fecondità quello che per Gregory Bateson è il paradosso di una struttura a ‘doppio vincolo’. Attraverso la molteplicità dei livelli del linguaggio, l’individuo oltrepassa l’esplicitezza del discorso7. L’individuo, condannato a non poter uscire dall’universo in cui è collocato, è nello stesso tempo dotato di una creatività dinamica attraverso cui riesce a pensare l’universo come non unico, come multiverso8. Una sorta di diritto all’amplificazione fluttuante che il linguaggio asseconda a causa di quella sua natura, per riprendere banalmente un termine saussuriano, tutta differenziale, legata all’‘essere non essendo altro’, altro che però è inevitabilmente chiamato in causa,‘evocato’.

Un’amplificazione fluttuante da cui la scienza – che opera comunque nel linguaggio – deve stare in guardia, ma davanti cui la letteratura si pone, al contrario, con assoluto abbandono. Ecco che non si può che essere d’accordo con il professor Sobrero quando sostiene che narrazione antropologica e narrazione letteraria rappresentano due entità distinte. Ecco che non si può non condividere l’opinione del sopraccitato Debaene quando afferma che non si dovrebbe pensare a una relazione tra letteratura e antropologia sul piano del loro essere discipline (vaste e di difficile definizione), ma sul piano delle ‘idee’ che antropologia e letteratura propongono.

Direi anzi che, se l’antropologia ha tenuto a difendersi chiarendo che ‘non è letteratura’, bisognerà ora che si chiarisca che la letteratura non è antropologia. Lo ha spiegato bene Iser, per il quale la letteratura risponde a un’‘antropologia estensiva’9, alla necessità della natura umana di oltrepassare i propri limiti e di creare un mondo alternativo a quello attuale10. Lo ricordano Marie Scarpa e Jean-Marie Privat: un testo non ha statuto di documento storico e, se può accogliere dei fatti di ordine etno-antropologico, la sua natura risente di una complessità che va di là del semplice fatto11. Non si dovrebbe dunque trattare di ‘usare’ il testo come un archivio di dati etnografici, ma piuttosto di indagare come delle ‘idee’ s’incarnino nella scrittura e ‘fluttuino’ nel gioco del significante.

Non si vuole di certo propugnare un ritorno alla negazione letteraria dei contenuti materiali operata nella stagione formalista e strutturalista, all’autoreferenzialità della letteratura, ma si vuole semplicemente indicare, come lascia intuire il professor Bonafin nella sua introduzione all’ultimo numero dell’Immagine riflessa12, che il lavoro da fare per dare una sistemazione teorica e metodologica a un’‘antropologia del testo’ è ancora tanto («la nozione di antropologia del testo non è ancora così scontata»).

Il rischio di riproporre un ulteriore binarismo – come se la critica letteraria non ne contemplasse abbastanza – è fortemente presente. Il rischio, cioè, di vedere nella scrittura letteraria un fondo latente che il gioco del linguaggio maschera, sottopone ad alterazione e spostamenti, come se la letteratura si realizzasse nell’incontro di un coté materiale e di un travestimento verbale. Voler indagare che cosa ‘sta sotto’, cadendo quindi nella sterile dicotomia di contenutismo e formalismo, vuol dire già nell’intenzione non occuparsi più di letteratura, che oltrepassa la distinzione fra un fondo e una superficie. Il teorico André Compagnon parla dell’opposizione tra fondo e forma, descrizione o narrazione, come di una «violente logique binaire, terroriste, manichéenne, si chère aux littéraires», che «induit des alternatives dramatiques et nous envoie nous cogner contre les murs et les moulins à vent. Alors que la littérature est le lieu même de l’entre deux, du passe-muraille»13. Potremmo anche ricordare, a proposito dell’accento sui contenuti materiali su cui investe la critica tematica, come Cesare Segre faccia notare l’ambiguità del temine ‘tema’, che indica, sì, l’argomento, ma anche l’idea ispiratrice14 – dove i termini ‘idea’ e ‘ispirazione’ ci portano ben lontano da una concretezza materiale.

Trovo che la figura che è chiamata quasi a rappresentare l’emblema della poiesi letteraria, la metafora, esprima bene il rigetto di questo dualismo, di questa politica del doppio polo, del materiale e del formale, del fondo e della superficie. Ricoeur15 ci ha spiegato come la metafora, associando due termini eterogenei, produca uno ‘choc semantico’, che è come un evento nel linguaggio, e come a contare sia quindi, oltre i due termini di partenza, quell’evento, capace di creare senso e orientare la comprensione. Prima di Ricoeur, Max Black16 ci ha insegnato che alla metafora non conviene una concezione sostitutiva, per cui metaforico sarebbe semplicemente un termine che sta al posto di un altro, ma la metafora incorporerebbe invece un meccanismo d’interazione tra due identità, che ridisegna e dilata i confini semantici di queste. Le realtà fattuali, i concetti, i materiali vengono quindi annullati in vista di un accento posto su un ‘processo’, un ‘meccanismo’, mobile, incompiuto, fluttuante, in cui a contare non è ‘l’uno che diventa altro’, ma il ‘tragitto’, denso di ramificazioni e mai pienamente afferrabile, ‘attraverso cui’ l’uno diventa l’altro. Credo che di questo, di questo continuo scatto progettuale che dinamizza il testo letterario e in cui ogni termine è annullato nella sua individualità per integrarsi in un flusso, un’antropologia del testo debba tener conto.

Prima di chiudere vorrei ritornare su due altri aspetti menzionati dal professor Sobrero. Ci è stato presentato il rapporto di Leiris con il mondo da ‘riportare’ come un rapporto che non può prescindere dal pronome ‘io’, in cui le cose non possono che passare attraverso un’estremizzazione del soggettivo: «È solo in funzione di me stesso e perché mi degno di accordare alla loro esistenza un po’ d’attenzione che le cose sono». Ho pensato lì quanto ci sia di condiviso, oltre che tra l’antropologo e lo scrittore, tra l’antropologo e il critico letterario, in quella posizione più o meno sofferta di un punto di vista concreto e soggettivo che opera su un testo. Mi è venuto in mente Auerbach: pongo al testo una domanda e da quel momento quello che conta per me è quella domanda. Quello che conta non è più il testo o il mondo che esso rappresenta, ma il rapporto tra me e quel testo e quel mondo, la mia proiezione su di loro, o, se vogliamo, la loro proiezione su di me.

Teodoro Patera

NOTE

1 R. Barthes, «Introduzione all’analisi strutturale dei racconti», in AA.VV., L’analisi del racconto, Milano, Bompiani, 1969, p. 7-46.

2 CH. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie (2007), Roma, Fazi, 2008.

3 V. Debaene, «Les deux livres de l’ethnographe. Ethnologie et littérature en France entre 1939 et 1955», Littérature et anthropologie. Textes recueillis par Silvia Disegni et Michela Lo Feudo, Recherches et Travaux, n. 82, 2013, p. 39-51.

4 Oltre ai casi celebri di Michel Leiris con L’Afrique fantôme e di Claude-Lévi Strauss con Tristes tropiques, lo studioso cita: Marcel Griaule, Les Flambeurs d’hommes (1934); Alfred Métraux, L’ile de Pâques (giudicato da Bataille un capolavoro della letteratura francese dell’epoca); Maurice Leenhardt, Gens de la Grande Terre (1937); Jacques Soustelle, Mexique, terre indienne (1936), Jehan Vellard, Une civilisation du miel (1939), Paul-Emile Victor, Boréal et Banquise (1938-1939).

5 M. Mauss, Manuel d’ethnographie, Paris, Payot, 1967, p. 8.

6 Jean Jamin, Lire Leiris, Autobiographie et langage, Klincksieck, Paris, 1975.

7 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente (1972), Milano, Adelphi, 1977.

8 Cfr. Raffaella Trigona, «Imitazione creativa. Il desiderio di una prospettiva evolutiva», in Id., a cura di, Imitazione creativa. Evoluzioni e paradossi del desiderio, Moretti e Vitali, 2004, p. 13-30.

9 W. Iser, Prospecting. From Reader Response to Literary Anthropology, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1989; Id., The Fictive and the Imaginary. Charting Literary Anthropology, Baltimore-London, The Johns Hopkins University Press, 1993.

10 Si veda R. Gambino, «Antropologia letteraria», in M. Cometa, a cura di, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, p. 72-78.

11 J.-M. Privat – M. Scarpa, «Présentation. La culture à l’œuvre», Romantisme, 145, 2009, 3, p. 3-9.

12 Figure della memoria culturale. Tipologie, identità, personaggi, testi e segni, L’immagine riflessa, 22, 2013.

13 A. Compagnon, Le démon de la théorie, Paris, Seuil, 1998, p. 162.

14 C. Segre, «Temi/motivo», in Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi 1985, p. 356.

15 P. Ricœur, La métaphore vive, Paris, Seuil, 1975.

16 M. Black, «Metafora», in Id., Modelli archetipi metafore, Parma, Pratiche, 1983, pp. 41-66.

Un pensiero su “Immagini riflesse: Letteratura e antropologia culturale (Incontro interdisciplinare – Macerata, 18 settembre 2013)

  1. All’ottimo intervento di Teodoro ho poco da aggiungere, se non un rinvio, riferito a uno degli ultimi capoversi del suo testo, alle nozioni di flusso e di margine (limen) come utilizzate nell’antropologia di Victor Turner, soprattutto negli ultimi scritti di ‘antropologia della performance e dell’esperienza’. Definire la letteratura è compito improbo, ci si può avvicinare appunto anche con i concetti di esperienza liminale, di processo rituale, che mi sembra mirino proprio a sfuggire alle secche di un ottuso binarismo. Qualcosa ho provato ad accennare in altra sede:
    https://tinyurl.com/zgp62sk

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